L'ex procuratore generale di Messina
riconosciuto autore del dossier infamante sul professor Adolfo
Parmaliana morto nel 2008
Dopo quattro anni di udienze, – la
prima si tenne il 6 febbraio 2012 – l'ex Procuratore Generale di
Messina Antonio Franco Cassata (nella foto a sinistra) è stato condannato, in via
definitiva, per diffamazione pluriaggravata nei confronti del
professor Adolfo Parmaliana.
Ad un’ammenda di 800 euro, anche se
il pm aveva chiesto una condanna a tre mesi – e al risarcimento
alla famiglia da stabilire in sede civile, certo.
Ma comunque una sentenza storica.
Una sentenza, oggi confermata anche
dalla Cassazione, nelle cui motivazioni si legge «…tale
ritrovamento è evidente spia di un lavoro di dossieraggio che vedeva
l’imputato raccogliere carte per usarle contro la memoria del
professore…», «…non vi è dubbio infatti che l’imputato con
coscienza e volontà abbia offeso l’onore e la reputazione del
defunto prof. Adolfo Parmaliana…», «il contenuto dell’anonimo,
contenendo falsità… costituisce un chiaro segno di disprezzo e di
offesa alla reputazione della persona verso la quale sono state
scritte…», «sussiste pure, l’elemento psicologico, essendoci
nel Cassata la consapevolezza di ledere attraverso lo scritto la
reputazione della persona offesa. Anzi, nella specie, appare evidente
la sussistenza di una volontà di diffamare, pur non necessaria per
l’integrazione della fattispecie de qua, per la quale è
sufficiente un dolo generico…».
Il magistrato più potente del
distretto giudiziario di Messina degli ultimi decenni è stato
condannato. Altri giudici, in ben tre gradi di giudizio, hanno
ritenuto sussistenti a suo carico le circostanze aggravanti dei
“motivi abietti di vendetta” rispetto a quell’ultima lettera
lasciata da Adolfo Parmaliana.
«La Magistratura
barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe
umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato
fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia,
le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello
Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di
offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito, di servitore
dello Stato e docente universitario.»
Con queste parole, scritte prima di
suicidarsi il 2 ottobre 2008, Adolfo Parmaliana (nella foto a destra) – cinquantenne
professore di chimica dell’Università di Messina – lasciava il
suo testamento morale, il suo “j’accuse” nei confronti di
alcuni giudici barcellonesi e messinesi «così celeri nel rinviarlo
a giudizio – diceva il suo legale e amico Fabio Repici pochi giorni
dopo la tragica scomparsa – ma non altrettanto tempestivi» nel dar
seguito alle sue pubbliche denunce delle connivenze tra mafia,
politica, massoneria e ambienti giudiziari nella zona tirrenica di
quella provincia che “babba”, in realtà, non lo è mai stata.
Già, perché Parmaliana non era
soltanto uno stimato docente e scienziato. Per tanti anni era stato
anche segretario della sezione dei Democratici di sinistra a Terme
Vigliatore – dove abitava – e nel 2005, con i suoi esposti sul
Piano regolatore, sull’abusivismo edilizio, su certe transazioni
fatte dai politici del suo paese, contribuì allo scioglimento per
infiltrazione mafiosa del consiglio comunale della stessa Terme
Vigliatore.
Quel professore che non scendeva a
compromessi finì con l’essere emarginato anche all’interno della
sua parte politica. Al suo fianco era rimasto solo l’amico Beppe
Lumia, tra i pochi – insieme a Claudio Fava e Sonia Alfano – che
ne ha difeso la memoria dopo la scomparsa.
Nel settembre 2009, a quasi un anno
dalla morte, una rabbia vendicativa, evidentemente scatenata da
quell’ultima, drammatica denuncia, partoriva un dossier anonimo –
nel classico stile dei corvi – con cui si cercava di screditare la
memoria di Parmaliana, mettendo in dubbio moralità e qualità
professionali del professore. Il dossier veniva inviato a numerosi
destinatari, tra cui lo stesso senatore Lumia e lo scrittore e
giornalista Alfio Caruso, a poche settimane dall’uscita del suo
libro Io che da morto vi parlo (Longanesi, novembre 2009), il
racconto dettagliato delle battaglie spesso solitarie, delle
sconfitte, delle nefandezze compiute ai danni di Parmaliana, fino
alla sua morte. Come accerterà in seguito la magistratura di Reggio
Calabria, una delle finalità del dossier anonimo era proprio quella
di ostacolare la pubblicazione del libro di Caruso.
La famiglia Parmaliana sporge denuncia
contro ignoti, evidenziando la circostanza che allo scritto anonimo
era stata allegata una sentenza della Cassazione inviata da una
cartoleria di Barcellona Pozzo di Gotto alla segreteria personale del
procuratore generale di Messina Antonio Franco Cassata, cioè il
magistrato sul quale Parmaliana aveva presentato – nel dicembre del
2001 – una nota al Consiglio superiore della magistratura, e che
sarà sentito – nel marzo del 2002 – dall’organo di autogoverno
dei giudici nell’ambito di un procedimento per incompatibilità
ambientale poi archiviato – a cui fa riferimento il memoriale
lasciato al fratello prima di suicidarsi.
La Procura di Reggio Calabria avvia le
indagini e il 17 novembre 2010 il sostituto procuratore reggino
Federico Perrone Capano – accompagnato dal capitano del Ros Leandro
Piccoli – si reca negli uffici della Procura generale di Messina
per interrogare i cancellieri in servizio in quell’ufficio.
Il Procuratore generale Cassata fu
molto ospitale con il suo giovane collega e l’ufficiale dell’Arma
tanto da mettere a disposizione il suo ufficio per l’audizione dei
testimoni. Durante la verbalizzazione delle dichiarazioni dell’ultima
teste, Angelica Rosso, il capitano Piccoli nota in una vetrinetta una
carpetta con un’annotazione manoscritta: “copie esposto
Parmaliana”; appena più giù, la dicitura, sempre manoscritta, “da
spedire”. Perrone Capano allora telefona al suo superiore Giuseppe
Pignatone per riferirgli di quanto aveva visto. Pignatone telefona a
sua volta a Cassata per spiegargli la necessità di procedere al
sequestro.
La carpetta conteneva quattro copie del
dossier anonimo – senza il timbro dell’ufficio con il numero di
protocollo – e su due di queste erano attaccati due post-it con su
scritto “Procura ME” e “Procura Reggio C.”. La Procura di
Reggio Calabria iscrive Cassata nel registro degli indagati e, emerse
le responsabilità del procuratore generale, lo rinvia a giudizio il
3 dicembre 2011 per diffamazione pluriaggravata in concorso con
l’aggravante di aver addebitato alla presunta vittima fatti
determinati e di aver agito per motivi abietti di vendetta.
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