- legname da ardere;
- residui agricoli e forestali;
- scarti dell’industria agroalimentare;
- reflui degli allevamenti;
- rifiuti urbani;
- specie vegetali coltivate per lo scopo.
- l’anidride carbonica utilizzata dal materiale organico per crescere è la stessa emessa nella combustione solo se non viene consumata anidride carbonica per rendere utilizzabile il materiale e per trasportarlo presso l’impianto (difficilmente da noi si coltiverà olio di palma, mentre lo si coltiva in Africa, ad es. lo produce la Osmon Africa, società legata a Tirrenoambiente, recentemente finita sotto inchiesta da parte della procura di Vercelli);
- l’incenerimento di biomassa è conveniente solo se gli impianti sono di grosse dimensioni e quindi per un impianto piccolo potrebbe essere utilizzato combustibile proveniente da lontano e non controllato dal punto di vista dei residui di coltivazione (pesticidi, anticrittogamici, medicinali e molecole tossiche).
In un articolo pubblicato da medicinademocratica.org, Michelangiolo Bolognini, medico igienista sosteneva che: «Preliminarmente bisogna tener presente l’enorme capacità di corruzione politica del meccanismo di incentivazione ”ecologica” pubblica, ma pagata dai consumatori mediante una tassa del 7% delle bollette elettriche, di produzione di energia iniziata nel 1992 con una delibera interministeriale (CIP 6) e ridefinita successivamente come “Certificati Verdi”, si tratta di 6 miliardi di euro l’anno, una massa di denaro che ha condizionato, e continua a condizionare, le scelte politiche a tutti i livelli, da quelli ministeriali, alle regioni, alle amministrazioni locali. L’importante è bruciare, bruciare e bruciare, visto che oltre il 90% di questi fondi vanno alla combustione delle cose più svariate, più di 4 miliardi di euro (4.361 milioni nel 2006) vengono destinati agli stessi combustibili fossili ed ai “combustibili di processo o res idui o recuperi di energia”, una definizione che molte volte ha coperto lo smaltimento di prodotti tossici derivati dalle lavorazioni petrolifere, ribattezzate fonti di energia “assimilate alle rinnovabili”, ad esclusivo vantaggio della potente Lobby petrolifera. Comunque dei restanti fondi, destinati alle “fonti di energia rinnovabili” ben 1.136 milioni di euro (dati sempre del 2006) vanno alle “biomasse e rifiuti”. In questo le centrali a biomasse di taglia industriale si apparentano con gli inceneritori, oramai quasi sempre definiti, nel nostro Paese, “termovalorizzatori” (anche se il termine tecnicamente più corretto, dovrebbe essere quello di “termocancrovalorizzatori” o, più semplicemente, “cancrovalorizzatori”. Del resto questi impianti sono intercambiabili, come ben dimostra, in Toscana, il caso dell’inceneritore di Pietrasanta, voluto a tutti i costi dalla Amministrazione regionale, retta allora da Vannino Chiti, che arrivò a commissariare autoritariamente le autorità amministrative locali, tutte contrarie alla sua realizzazione, mediante un dirigente regionale, noto per un contratto capestro (il contratto “Daviddi”), che impose a tutte le amministrazioni Comunali della Versilia, che prevedeva, e prevede, il conferimento di una data quantità di rifiuti a questo impianto, pena il pagamento di sanzioni pecuniarie in caso di una sua riduzione, sfavorendo quindi politiche “virtuose” di gestione dei rifiuti mediante loro riduzione, riciclaggio e recupero: un esempio della “vera”politica ambientale della regione Toscana. In alcune fasi della sua vita l’inceneritore di Pietrasanta venne ribattezzato “impianto per biomasse”, per renderlo più “appetibile”, specie nella delicata fase del suo collaudo; attualmente questo impianto brucia “combustibile da rifiuti” (CDR), è gestito dalla multinazionale francese Veolia, ed ha avuto, anche recentemente, ripetuti episodi di emissioni anomali di diossina. Che gli impianti industriali per biomasse siano il più delle volte un trucco per “far digerire” un inceneritore, lo dimostra il semplice fatto della sovrastima della potenzialità delle biomasse disponibile “a filiera corta”, che dovrebbe avere un raggio massimo di 20 Km, ma che è stata poi ampliata a 70 Km. Sovrastima ben illustrata da uno studio del WWF relativo ad una prevista centrale da 10 MW in regione Piemonte, un esempio che ben si attaglia anche alla regione Toscana. “Un primo mito da sfatare riguarda la disponibilità di foreste del nostro Paese: all’aumento della superficie forestale dovuto all’abbandono dei territori marginali si è accompagnato un incremento della popolazione nazionale e oggi la quota pro capite di boschi è circa la metà di quella che si aveva nel 1861. Una propaganda fraudolenta sta spacciando lo sfruttamento forestale addirittura come utile o necessario all’ambiente e considera il legno come risorsa abbondante, abbandonata e gratuita. Il legno è invece materiale prezioso, limitato e di enorme valore bio-ecologico e, secondo il criterio della sostenibilità, tale patrimonio dovrebbe essere trasmesso alle generazioni future. La Regione Piemonte vuole raggiungere l’ambizioso traguardo di produrre il 20% del proprio fabbisogno energetico da fonti rinnovabili. Obiettivo condivisibile, ma che purtroppo verrà raggiunto nei modi sbagliati, ovvero bruciando biomasse legnose in modo da contribuire al 60% di quel 20%. (…) Un piano energetico che è una truffa per il cittadino e un’enorme minaccia per l’ambiente (…) Dal punto di vista energetico, il legno si caratterizza per avere un contenuto energetico CE (quantità di energia termica ricavabile dalla combustione completa riferita all’unità di massa), espresso come potere calorifico inferiore (p.c.i.), pari a circa un quarto di quello del gasolio (10200 kcal/kg). (…) Prendendo in considerazione le tecnologie consolidate, gli standard degli impianti termoelettrici alimentati a biomasse sono caratterizzati da rendimenti elettrici bassi, attorno appena al 26%, con valori sensibilmente inferiori alle altre tecnologie usate oggi in Italia: - olio combustibile (36%), - carbone (42%) e turbogas a ciclo combinato (56%). Il perché di queste basse efficienze è legato in primo luogo alla dimensione degli impianti: i più grandi impianti di produzione elettrica da biomassa sono almeno 60 volte più piccoli di quelli a carbone o a gas. Ciò è inevitabile, in quanto la piccola dimensione è imposta dalla scarsa densità energetica del combustibile. Una centrale a biomassa da 10 MW elettrici assorbe tutta la produzione di legname di oltre 7500 ettari (l’area di un rettangolo di 10 km per 7,5 km). Poiché una tale superficie da noi non esiste come bosco unitario, ma è intervallata da strade, aree aperte e abitati, per reperire legna da oltre 7500 ettari bisogna rastrellare il legname in un raggio di decine di chilometri, con trasporti che richiedono migliaia di camion. Per una centrale da 10 MW servono 4600 camion da 20 t all’anno (…) Come mai un’attività con tali caratteristiche sfavorevoli suscita comunque interesse? La risposta sta in un sistema di incentivi eccessivi, che non ha eguali in altre nazioni europee e non è accompagnato da un adeguato corollario di limitazioni. Manca la valutazione dei costi ambientali dell’attività, che dovrebbe essere, al contrario, vincolante nei processi decisionali. Ciò che ci si prepara a fare è una grossa speculazione economica, con effetti ambientali devastanti. Francesi, svizzeri e austriaci, nostri vicini lungo l’arco alpino, pur utilizzando i boschi regolarmente, non si sognano di produrre corrente elettrica da biomasse forestali, ma si limitano a sfruttare intelligentemente i residui di lavorazione del legno a fini termici.(…)”; fatto questo però possibile solo con l’uso domestico-familiare o per la chiusura di cicli aziendali agricoli su scala assolutamente locale. Comunque, rispetto alla regione Piemonte, la regione Toscana è andata anche oltre, prevedendo la possibilità di realizzare un un’area già assai critica, come quella di Livorno, una “centrale a biomasse” alimentata da olio di palma proveniente dal Sud del mondo (Tanzania ed India), un clamoroso esempio di sfruttamento neocoloniale toscano, con buona pace di tutta la retorica terzomondista dell’ex- presidente della giunta Martini, a San Rossore ed oltre. Comunque per questa centrale livornese sono previste anche altre fonti combustibili, per esempio non meglio definiti “oli di recupero”e, sempre per questa centrale, risulta essere assai interessante la previsione, che la stessa Agenzia ambientale regionale è costretta a fare, del futuro contributo che questa centrale darà all’inquinamento da polveri PM10, diventando la seconda fonte di emissione Toscana, dopo la megacentrale termoelettrica di Piombino. Il problema dell’inquinamento, e dei danni alla salute che questo causa, è del resto cruciale. Un problema aggravato dalla informazione, quantomeno parziale, che viene fatta in questo campo: tipico è il caso dell’Assessore regionale toscano all’ambiente quando afferma essere, il contributo all’inquinamento da polvere degli inceneritori, un minuscolo 0,27% del totale. Dati che servono a dimostrare lo scarso contributo delle sorgenti puntuali (centrali per biomasse, inceneritori ed altri impianti industriali), rispetto alle sorgenti diffuse (traffico veicolare, riscaldamento domestico, ecc). I dati ambientali citati dall’assessora Bramerini, vengono tratti dal cosiddetto inventario IRSE, e sono di una qualità ridicolmente scadente, i calcoli sono fatti per estrapolazione grossolana, ad esempio nel caso delle sorgenti lineari (autostrade e strade), sui dati delle vendite di carburanti; altrettanto scadenti i dati sugli impianti di riscaldamento e le altri fonti definite “diffuse; mentre le sorgenti puntuali complessive prese in considerazione sono per tutta la Toscana, “ben” 86 (ottantasei) e si basano soprattutto sugli autocontrolli. Ad esempio le sorgenti puntuali prese in considerazione per i comuni della Piana FI-PO-PT, la più popolata della regione, sono 9 (nove): di cui 2 per la Provincia di Pistoia, 7 per Firenze e 2 per Prato (da notare che l’inceneritore di Baciacavallo non viene preso in considerazione). Il fatto di estrapolare “molto” le sorgenti lineari e diffuse e, nel contempo, di valutare solo un numero incredibilmente basso di sorgenti puntuali comporta, ovviamente una sottostima enorme di queste ultime.
Su un totale toscano stimato a 23951
tonn. di PM10 (definite genericamente così, senza nessun
approfondimento sulla loro natura chimica) solo 1919 proverrebbero,
il condizionale come in tutti i dati IRSE è di obbligo, da sorgenti
puntuali (1106 tonn. dalla sola provincia di Livorno).
Arrivare così allo 0.27% è un gioco
da ragazzi: numeri in libertà. Nel contempo l’assessora Bramerini
si guarda bene di citare quella che sarebbe davvero una fonte di
ambientali attendibili, una delle poche esistenti in Italia, quella
del progetto PATOS.
Il Progetto toscano PATOS, voluto e
finanziato dalla regione Toscana, è successivo ad un precedente, e
più ristretto “Progetto PASF”, realizzato a Sesto Fiorentino, ed
aveva come finalità quella di fornire un quadro finalmente
attendibile, sul versante tecnico-scientifico, delle caratteristiche
chimiche puntuali, e quindi anche della provenienza, delle polveri
PM10 (ed, in parte, anche delle PM 2,5), questa esigenza nasceva da
alcuni amministratori locali dell’interland fiorentino e da quelli
regionali toscani, a seguito di alcune inchieste giudiziarie, da cui
erano scaturiti anche rinvii a giudizio, a carico di questi
amministratori, per comportamenti omissivi,relativamente al numero
eccessivo delle giornate nelle quali avveniva il superamento dei
valori limite delle concentrazioni delle PM10 che non erano
diminuite, nel corso degli anni, nonostante le azioni messe in atto
dalle Amministazioni (sopr attutto blocchi del traffico veicolare
privato che erano risultati essere del tutto inefficaci).
Si trattava, quantomeno di evidenziare
la quota parte di componente naturale (erosione crostale, areosol
marino ecc) delle PM10, che, con tutta evidenza,non risulta
comprimibile da azioni intraprese dalla Pubblica Amministrazione, uno
studio che aveva specificamente lo scopo della identificazione della
“componente naturale” delle PM10 era già stato precedentemente
commissionato dall’allora sindaco di Roma Walter Veltroni
all’Istituto Superiore di Sanità utilizzando le centraline di
prelievo ed i laboratori dell’Istituto stesso.
Il progetto PATOS, però andava oltre,
prevedendo le analisi puntuali (con quasi 40000 analisi) delle
polveri prelevate in una campagna annuale (6 mesi per Montale)
effettuata tra il 2005 ed il 2006, da 8 centraline situate in aree
critiche di città Toscane (Arezzo, Grosseto, Capannori (LU),
Livorno, Firenze (con 2 centraline, una per le PM10 ed una per le
PM2,5), Prato e Montale (PT), quest’ultima a meno di 1000 metri
dall’inceneritore.
Le analisi laboratoristiche e le
relative considerazioni in ordine ad origine e provenienza del
particolato, vennero affidate alle Università di Firenze e di Pisa
(e non alla Agenzia Ambientale regionale), la campagna di rilevazione
venne effettuata tra il 2005 ed il 2006, i risultati furono questi:
- il traffico è responsabile solo del
25-35% del totale del PM10 (dato in accordo con quelli più
accreditati, come quelli americani dell’E.P.A.);
- i processi di combustione (legno,
biomasse ed anche rifiuti) sono responsabili del 40-60%
(autunno-inverno); la componente naturale è del 10-15%.
Uno dei dati più rilevanti è stato
poi quello relativo alla centralina di Montale, che è in un’area
definita “rurale di fondo”, in quanto è in una zona (il giardino
di una scuola elementare) con traffico quasi assente e, a parte
l’inceneritore, con scarse altre sorgenti.
Questa centralina aveva la
caratteristica di aver dato i valori di PM10 più alti della
provincia di Pistoia (con valori pari o anche maggiori delle
centraline delle peggiori e più trafficate strade di Firenze), i
risultati furono questi:
- I dati dei markers della combustione
(potassio e glicolati) avevano valore doppi, quadrupli, ed oltre,
delle altre centraline (in questo caso non si può certo immaginare
il contributo preponderante degli impianti di riscaldamento
domestico, così come fa l’inventario IRSE);
- il dato del mercurio era almeno
doppio di quello di ogni altra centralina toscana, ed Il dato
dell’arsenico era il doppio di buona parte delle altre centraline
toscane (questi alti e significativi valori dei metalli pesanti
vennero messi correttamente in relazione con la presenza
dell’inceneritore dal prof. Udisti dell’università di Firenze,
come pure gli alti valori dei markers chimici della combustione).
- I dati di emissione dell’impianto,
anche per questi parametri, erano perfettamente rientranti nella
norma (a dimostrazione che la norma, che prevede limiti di
concentrazione per m3 e non limiti ai flussi di massa, è
completamente insufficiente a tutelare la salute).
E’ evidente che sulla base di questi
risultati i governanti della regione Toscana hanno silenziato il
Progetto PATOS ed evitato accuratamente di fare ulteriori analisi con
questa metodologia, proprio a Montale.
Il problema non è però esclusivamente
tecnico, in quanto la responsabilità ultima appare, in ogni caso
essere, quella del politico, che ha chiesto (ed ottenuto) i dati
tecnici che lo giustificasse nella scelta di costruire impianti
sicuramente nocivi e nel contempo costosi, inutili e superflui, come
sono le centrali a biomasse di tipo industriale e gli impianti di
incenerimento.
Impianti che avvelenano, i modo odioso
e vigliacco, i nostri cibi, la nostra aria, la nostra acqua, perché
ci impongono nocività del tutto inutili, superflue e facilmente
eliminabili: ed in questo il caso degli inceneritori è emblematico.
Bisognerebbe sempre aver presente che è
in atto un avvelenamento generalizzato (ammesso e perfettamente
legale, sul versante delle leggi ambientali “dell’ecologica
Europa”) di inquinanti persistenti, che entrano nei cicli
biologici, che si accumulano nei nostri corpi e di quelli che
verranno dopo di noi, e che i frutti di questi veleni sono e saranno
malattie, sofferenze, morti.»
Considerati i rischi e le già presenti criticità ambientali sul nostro territorio, autorizzare un
siffatto impianto potrebbe rivelarsi una scelta scellerata.
Nessun commento:
Posta un commento