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mercoledì 21 maggio 2014

Centrale a biomasse o inceneritore mascherato?

Come se non bastasse la presenza di una delle più grandi discariche del Meridione al cui interno si trova anche un impianto di produzione di energia elettrica dalla combustione di biogas (le cui emissioni bene non fanno), ecco che a minacciare la salute dei cittadini furnaresi si profila la minaccia della costruzione di un impianto a biomasse (il prossimo 5 giugno si terrà in Comune una conferenza di servizi decisoria in tal senso). Ma che cos’è una centrale a biomassa? Si tratta di un impianto di produzione di energia elettrica in cui come combustibile viene usata la biomassa. La biomassa comprende vari materiali di origine biologica, tra cui generalmente scarti dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’industria:
  • legname da ardere;
  • residui agricoli e forestali;
  • scarti dell’industria agroalimentare;
  • reflui degli allevamenti;
  • rifiuti urbani;
  • specie vegetali coltivate per lo scopo.
Il termine biomassa evoca qualcosa di pulito, sostenibile e buono ma non si dice che:
  • l’anidride carbonica utilizzata dal materiale organico per crescere è la stessa emessa nella combustione solo se non viene consumata anidride carbonica per rendere utilizzabile il materiale e per trasportarlo presso l’impianto (difficilmente da noi si coltiverà olio di palma, mentre lo si coltiva in Africa, ad es. lo produce la Osmon Africa, società legata a Tirrenoambiente, recentemente finita sotto inchiesta da parte della procura di Vercelli);
  • l’incenerimento di biomassa è conveniente solo se gli impianti sono di grosse dimensioni e quindi per un impianto piccolo potrebbe essere utilizzato combustibile proveniente da lontano e non controllato dal punto di vista dei residui di coltivazione (pesticidi, anticrittogamici, medicinali e molecole tossiche).

In un articolo pubblicato da medicinademocratica.org, Michelangiolo Bolognini, medico igienista sosteneva che: «Preliminarmente bisogna tener presente l’enorme capacità di corruzione politica del meccanismo di incentivazione ”ecologica” pubblica, ma pagata dai consumatori mediante una tassa del 7% delle bollette elettriche, di produzione di energia iniziata nel 1992 con una delibera interministeriale (CIP 6) e ridefinita successivamente come “Certificati Verdi”, si tratta di 6 miliardi di euro l’anno, una massa di denaro che ha condizionato, e continua a condizionare, le scelte politiche a tutti i livelli, da quelli ministeriali, alle regioni, alle amministrazioni locali. L’importante è bruciare, bruciare e bruciare, visto che oltre il 90% di questi fondi vanno alla combustione delle cose più svariate, più di 4 miliardi di euro (4.361 milioni nel 2006) vengono destinati agli stessi combustibili fossili ed ai “combustibili di processo o res idui o recuperi di energia”, una definizione che molte volte ha coperto lo smaltimento di prodotti tossici derivati dalle lavorazioni petrolifere, ribattezzate fonti di energia “assimilate alle rinnovabili”, ad esclusivo vantaggio della potente Lobby petrolifera. Comunque dei restanti fondi, destinati alle “fonti di energia rinnovabili” ben 1.136 milioni di euro (dati sempre del 2006) vanno alle “biomasse e rifiuti”. In questo le centrali a biomasse di taglia industriale si apparentano con gli inceneritori, oramai quasi sempre definiti, nel nostro Paese, “termovalorizzatori” (anche se il termine tecnicamente più corretto, dovrebbe essere quello di “termocancrovalorizzatori” o, più semplicemente, “cancrovalorizzatori”. Del resto questi impianti sono intercambiabili, come ben dimostra, in Toscana, il caso dell’inceneritore di Pietrasanta, voluto a tutti i costi dalla Amministrazione regionale, retta allora da Vannino Chiti, che arrivò a commissariare autoritariamente le autorità amministrative locali, tutte contrarie alla sua realizzazione, mediante un dirigente regionale, noto per un contratto capestro (il contratto “Daviddi”), che impose a tutte le amministrazioni Comunali della Versilia, che prevedeva, e prevede, il conferimento di una data quantità di rifiuti a questo impianto, pena il pagamento di sanzioni pecuniarie in caso di una sua riduzione, sfavorendo quindi politiche “virtuose” di gestione dei rifiuti mediante loro riduzione, riciclaggio e recupero: un esempio della “vera”politica ambientale della regione Toscana. In alcune fasi della sua vita l’inceneritore di Pietrasanta venne ribattezzato “impianto per biomasse”, per renderlo più “appetibile”, specie nella delicata fase del suo collaudo; attualmente questo impianto brucia “combustibile da rifiuti” (CDR), è gestito dalla multinazionale francese Veolia, ed ha avuto, anche recentemente, ripetuti episodi di emissioni anomali di diossina. Che gli impianti industriali per biomasse siano il più delle volte un trucco per “far digerire” un inceneritore, lo dimostra il semplice fatto della sovrastima della potenzialità delle biomasse disponibile “a filiera corta”, che dovrebbe avere un raggio massimo di 20 Km, ma che è stata poi ampliata a 70 Km. Sovrastima ben illustrata da uno studio del WWF relativo ad una prevista centrale da 10 MW in regione Piemonte, un esempio che ben si attaglia anche alla regione Toscana. “Un primo mito da sfatare riguarda la disponibilità di foreste del nostro Paese: all’aumento della superficie forestale dovuto all’abbandono dei territori marginali si è accompagnato un incremento della popolazione nazionale e oggi la quota pro capite di boschi è circa la metà di quella che si aveva nel 1861. Una propaganda fraudolenta sta spacciando lo sfruttamento forestale addirittura come utile o necessario all’ambiente e considera il legno come risorsa abbondante, abbandonata e gratuita. Il legno è invece materiale prezioso, limitato e di enorme valore bio-ecologico e, secondo il criterio della sostenibilità, tale patrimonio dovrebbe essere trasmesso alle generazioni future. La Regione Piemonte vuole raggiungere l’ambizioso traguardo di produrre il 20% del proprio fabbisogno energetico da fonti rinnovabili. Obiettivo condivisibile, ma che purtroppo verrà raggiunto nei modi sbagliati, ovvero bruciando biomasse legnose in modo da contribuire al 60% di quel 20%. (…) Un piano energetico che è una truffa per il cittadino e un’enorme minaccia per l’ambiente (…) Dal punto di vista energetico, il legno si caratterizza per avere un contenuto energetico CE (quantità di energia termica ricavabile dalla combustione completa riferita all’unità di massa), espresso come potere calorifico inferiore (p.c.i.), pari a circa un quarto di quello del gasolio (10200 kcal/kg). (…) Prendendo in considerazione le tecnologie consolidate, gli standard degli impianti termoelettrici alimentati a biomasse sono caratterizzati da rendimenti elettrici bassi, attorno appena al 26%, con valori sensibilmente inferiori alle altre tecnologie usate oggi in Italia: - olio combustibile (36%), - carbone (42%) e turbogas a ciclo combinato (56%). Il perché di queste basse efficienze è legato in primo luogo alla dimensione degli impianti: i più grandi impianti di produzione elettrica da biomassa sono almeno 60 volte più piccoli di quelli a carbone o a gas. Ciò è inevitabile, in quanto la piccola dimensione è imposta dalla scarsa densità energetica del combustibile. Una centrale a biomassa da 10 MW elettrici assorbe tutta la produzione di legname di oltre 7500 ettari (l’area di un rettangolo di 10 km per 7,5 km). Poiché una tale superficie da noi non esiste come bosco unitario, ma è intervallata da strade, aree aperte e abitati, per reperire legna da oltre 7500 ettari bisogna rastrellare il legname in un raggio di decine di chilometri, con trasporti che richiedono migliaia di camion. Per una centrale da 10 MW servono 4600 camion da 20 t all’anno (…) Come mai un’attività con tali caratteristiche sfavorevoli suscita comunque interesse? La risposta sta in un sistema di incentivi eccessivi, che non ha eguali in altre nazioni europee e non è accompagnato da un adeguato corollario di limitazioni. Manca la valutazione dei costi ambientali dell’attività, che dovrebbe essere, al contrario, vincolante nei processi decisionali. Ciò che ci si prepara a fare è una grossa speculazione economica, con effetti ambientali devastanti. Francesi, svizzeri e austriaci, nostri vicini lungo l’arco alpino, pur utilizzando i boschi regolarmente, non si sognano di produrre corrente elettrica da biomasse forestali, ma si limitano a sfruttare intelligentemente i residui di lavorazione del legno a fini termici.(…)”; fatto questo però possibile solo con l’uso domestico-familiare o per la chiusura di cicli aziendali agricoli su scala assolutamente locale. Comunque, rispetto alla regione Piemonte, la regione Toscana è andata anche oltre, prevedendo la possibilità di realizzare un un’area già assai critica, come quella di Livorno, una “centrale a biomasse” alimentata da olio di palma proveniente dal Sud del mondo (Tanzania ed India), un clamoroso esempio di sfruttamento neocoloniale toscano, con buona pace di tutta la retorica terzomondista dell’ex- presidente della giunta Martini, a San Rossore ed oltre. Comunque per questa centrale livornese sono previste anche altre fonti combustibili, per esempio non meglio definiti “oli di recupero”e, sempre per questa centrale, risulta essere assai interessante la previsione, che la stessa Agenzia ambientale regionale è costretta a fare, del futuro contributo che questa centrale darà all’inquinamento da polveri PM10, diventando la seconda fonte di emissione Toscana, dopo la megacentrale termoelettrica di Piombino. Il problema dell’inquinamento, e dei danni alla salute che questo causa, è del resto cruciale. Un problema aggravato dalla informazione, quantomeno parziale, che viene fatta in questo campo: tipico è il caso dell’Assessore regionale toscano all’ambiente quando afferma essere, il contributo all’inquinamento da polvere degli inceneritori, un minuscolo 0,27% del totale. Dati che servono a dimostrare lo scarso contributo delle sorgenti puntuali (centrali per biomasse, inceneritori ed altri impianti industriali), rispetto alle sorgenti diffuse (traffico veicolare, riscaldamento domestico, ecc). I dati ambientali citati dall’assessora Bramerini, vengono tratti dal cosiddetto inventario IRSE, e sono di una qualità ridicolmente scadente, i calcoli sono fatti per estrapolazione grossolana, ad esempio nel caso delle sorgenti lineari (autostrade e strade), sui dati delle vendite di carburanti; altrettanto scadenti i dati sugli impianti di riscaldamento e le altri fonti definite “diffuse; mentre le sorgenti puntuali complessive prese in considerazione sono per tutta la Toscana, “ben” 86 (ottantasei) e si basano soprattutto sugli autocontrolli. Ad esempio le sorgenti puntuali prese in considerazione per i comuni della Piana FI-PO-PT, la più popolata della regione, sono 9 (nove): di cui 2 per la Provincia di Pistoia, 7 per Firenze e 2 per Prato (da notare che l’inceneritore di Baciacavallo non viene preso in considerazione). Il fatto di estrapolare “molto” le sorgenti lineari e diffuse e, nel contempo, di valutare solo un numero incredibilmente basso di sorgenti puntuali comporta, ovviamente una sottostima enorme di queste ultime.
Su un totale toscano stimato a 23951 tonn. di PM10 (definite genericamente così, senza nessun approfondimento sulla loro natura chimica) solo 1919 proverrebbero, il condizionale come in tutti i dati IRSE è di obbligo, da sorgenti puntuali (1106 tonn. dalla sola provincia di Livorno).
Arrivare così allo 0.27% è un gioco da ragazzi: numeri in libertà. Nel contempo l’assessora Bramerini si guarda bene di citare quella che sarebbe davvero una fonte di ambientali attendibili, una delle poche esistenti in Italia, quella del progetto PATOS. Il Progetto toscano PATOS, voluto e finanziato dalla regione Toscana, è successivo ad un precedente, e più ristretto “Progetto PASF”, realizzato a Sesto Fiorentino, ed aveva come finalità quella di fornire un quadro finalmente attendibile, sul versante tecnico-scientifico, delle caratteristiche chimiche puntuali, e quindi anche della provenienza, delle polveri PM10 (ed, in parte, anche delle PM 2,5), questa esigenza nasceva da alcuni amministratori locali dell’interland fiorentino e da quelli regionali toscani, a seguito di alcune inchieste giudiziarie, da cui erano scaturiti anche rinvii a giudizio, a carico di questi amministratori, per comportamenti omissivi,relativamente al numero eccessivo delle giornate nelle quali avveniva il superamento dei valori limite delle concentrazioni delle PM10 che non erano diminuite, nel corso degli anni, nonostante le azioni messe in atto dalle Amministazioni (sopr attutto blocchi del traffico veicolare privato che erano risultati essere del tutto inefficaci). Si trattava, quantomeno di evidenziare la quota parte di componente naturale (erosione crostale, areosol marino ecc) delle PM10, che, con tutta evidenza,non risulta comprimibile da azioni intraprese dalla Pubblica Amministrazione, uno studio che aveva specificamente lo scopo della identificazione della “componente naturale” delle PM10 era già stato precedentemente commissionato dall’allora sindaco di Roma Walter Veltroni all’Istituto Superiore di Sanità utilizzando le centraline di prelievo ed i laboratori dell’Istituto stesso. Il progetto PATOS, però andava oltre, prevedendo le analisi puntuali (con quasi 40000 analisi) delle polveri prelevate in una campagna annuale (6 mesi per Montale) effettuata tra il 2005 ed il 2006, da 8 centraline situate in aree critiche di città Toscane (Arezzo, Grosseto, Capannori (LU), Livorno, Firenze (con 2 centraline, una per le PM10 ed una per le PM2,5), Prato e Montale (PT), quest’ultima a meno di 1000 metri dall’inceneritore. Le analisi laboratoristiche e le relative considerazioni in ordine ad origine e provenienza del particolato, vennero affidate alle Università di Firenze e di Pisa (e non alla Agenzia Ambientale regionale), la campagna di rilevazione venne effettuata tra il 2005 ed il 2006, i risultati furono questi: - il traffico è responsabile solo del 25-35% del totale del PM10 (dato in accordo con quelli più accreditati, come quelli americani dell’E.P.A.); - i processi di combustione (legno, biomasse ed anche rifiuti) sono responsabili del 40-60% (autunno-inverno); la componente naturale è del 10-15%. Uno dei dati più rilevanti è stato poi quello relativo alla centralina di Montale, che è in un’area definita “rurale di fondo”, in quanto è in una zona (il giardino di una scuola elementare) con traffico quasi assente e, a parte l’inceneritore, con scarse altre sorgenti. Questa centralina aveva la caratteristica di aver dato i valori di PM10 più alti della provincia di Pistoia (con valori pari o anche maggiori delle centraline delle peggiori e più trafficate strade di Firenze), i risultati furono questi: - I dati dei markers della combustione (potassio e glicolati) avevano valore doppi, quadrupli, ed oltre, delle altre centraline (in questo caso non si può certo immaginare il contributo preponderante degli impianti di riscaldamento domestico, così come fa l’inventario IRSE); - il dato del mercurio era almeno doppio di quello di ogni altra centralina toscana, ed Il dato dell’arsenico era il doppio di buona parte delle altre centraline toscane (questi alti e significativi valori dei metalli pesanti vennero messi correttamente in relazione con la presenza dell’inceneritore dal prof. Udisti dell’università di Firenze, come pure gli alti valori dei markers chimici della combustione). - I dati di emissione dell’impianto, anche per questi parametri, erano perfettamente rientranti nella norma (a dimostrazione che la norma, che prevede limiti di concentrazione per m3 e non limiti ai flussi di massa, è completamente insufficiente a tutelare la salute). E’ evidente che sulla base di questi risultati i governanti della regione Toscana hanno silenziato il Progetto PATOS ed evitato accuratamente di fare ulteriori analisi con questa metodologia, proprio a Montale. Il problema non è però esclusivamente tecnico, in quanto la responsabilità ultima appare, in ogni caso essere, quella del politico, che ha chiesto (ed ottenuto) i dati tecnici che lo giustificasse nella scelta di costruire impianti sicuramente nocivi e nel contempo costosi, inutili e superflui, come sono le centrali a biomasse di tipo industriale e gli impianti di incenerimento. Impianti che avvelenano, i modo odioso e vigliacco, i nostri cibi, la nostra aria, la nostra acqua, perché ci impongono nocività del tutto inutili, superflue e facilmente eliminabili: ed in questo il caso degli inceneritori è emblematico. Bisognerebbe sempre aver presente che è in atto un avvelenamento generalizzato (ammesso e perfettamente legale, sul versante delle leggi ambientali “dell’ecologica Europa”) di inquinanti persistenti, che entrano nei cicli biologici, che si accumulano nei nostri corpi e di quelli che verranno dopo di noi, e che i frutti di questi veleni sono e saranno malattie, sofferenze, morti.» Considerati i rischi e le già presenti criticità ambientali sul nostro territorio, autorizzare un siffatto impianto potrebbe rivelarsi una scelta scellerata.

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