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giovedì 18 giugno 2015

La insostenibile “sostenibilità” delle centrali a biomasse (e affini)

È un dato di fatto ormai acquisito che da qualche tempo in tutta Italia c'è una corsa alla realizzazione di centrali a biomassa, incremento dovuto anche alla circostanza che tali impianti, produttivi di energia termica per il riscaldamento ed energia elettrica da immettere nella rete pubblica, gode di particolari incentivi.
A complicare, non poco, le cose è la vaghezza stessa del concetto di biomassa, dato che nel nostro ordinamento giuridico non esiste una definizione chiara ed inequivocabile.
Infatti, per la definizione data dall’attuale legislazione, la biomassa è la “frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese pesca e acquacoltura, gli sfalci e potature provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”.
Una definizione in cui ci sta di tutto e molto ha davvero poco a che vedere con il termine “bio”.
Se prendiamo ad esempio la biomassa legnosa, data da alberi, colture dedicate o residui delle lavorazioni agricole, questa fonte di combustibile è tutt'altra cosa se paragonata ad un altro tipo di biomassa, definita tale per decreto ministeriale, e stiamo parlando del “famigerato” Css (combustibile solido secondario) che per decreto diventa comparato alla biomassa. Infatti, tale prodotto derivato dai rifiuti è stato definito “End Of Waste“, cioè fuori dall’elenco dei rifiuti, quindi gestibile come una biomassa combustibile!
È notizia di pochi giorni fa, quella dell'intenzione della Regione siciliana di risolvere la pluridecennale emergenza rifiuti anche (se non soprattutto) con il ricorso a impianti (per lo più cementifici e centrali elettriche) alimentati a Css, con la conseguenza che, se si dovesse dare sviluppo ulteriore alla combustione di tali “biomasse per decreto”, ci ritroveremo piccoli inceneritori sparsi sul territorio che utilizzeranno un combustibile che, per quanto lavorato e trattato, sarà sempre di origine plastica, con le necessarie conseguenze che ne deriverebbero (diossine, furani, ecc.).
È pur vero che, allo stato attuale delle normative vigenti il Css deve essere convogliato in grandi strutture, però le normative si cambiano facilmente; ne sanno qualcosa gli operatori del fotovoltaico, che si sono visti cambiare le regole ben cinque volte (cinque conti energia) in soli due anni e mezzo.
Ma torniamo alla biomassa legnosa che – come accenneremo a breve, è sempre di attualità. Chi sostiene la bontà di questi impianti, lo fa sull'assunto che i macchinari di ultima generazione permetterebbero di controllare quasi totalmente le emissioni e di considerare pari a zero il bilancio di CO2 emessa, rispetto a quella incamerata dal legno che si brucia.
Chi è contro sostengono invece che ogni processo di combustione implica l’emissione di Cov (composti organici volatili), di diossine, di metalli pesanti che sono comunque contenuti nel legno e di particolato ultrasottile (nanopolveri), che sono la fonte di maggiori pericoli per gli esseri viventi, in quanto talmente piccoli da legarsi alle molecole, generando forme tumorali.
Tanto per fare un esempio strettamente legato al territorio in cui viviamo e operiamo, solo un anno fa gli animi, di cittadini, amministratori e oppositori politici, del piccolo centro collinare di Furnari (Me) furono infiammati dalla presentazione, da parte di un gruppo di imprenditori, capitanati dall'ingegner Ivo Blandina (importante menbro della Confindustria isolana) di un progetto relativo ad una di queste “piccole” centrali da un mega.
Progetto successivamente ritirato dallo stesso proponente, ancor prima delle decisioni finali da parte degli enti che avrebbero dovuto dare il nulla osta. A cascata seguirono altri ipotesi di realizzazioni a Novara di Sicilia, Fondachelli Fantina e Milazzo, risolti poi in un nulla di fatto. Ora ci stanno riprovando a Torrenova, sempre nel messinese, con proteste annesse.
La domanda che ci si pone a questo punto è, ma queste centrali portano utilità alla collettività? E per utilità intendiamo ad esempio, vantaggi ambientali (la realizzazione di una centrale può far chiudere altre fonti di emissioni, la cui somma è superiore a quella emessa dalla centrale stessa? In questo caso si potrebbe dire che la centrale è sostenibile. Se invece si aggiunge alla situazione esistente, aggravandola non è ecocompatibile) e vantaggi economici (risparmi nella bolletta energetica).
Nel Trentino, terra molto più ricca di risorse legnose rispetto alla Sicilia, ci sono alcuni casi particolari, che rappresentano un esempio pratico di non corretto utilizzo delle centrali a biomassa. È il caso del Comune di Cembra, situato in mezzo a una valle con coltivazione di viti pregiate, dove l’amministrazione comunale, abbagliata dal facile guadagno promesso dalla realizzazione di una centrale a biomassa legnosa, ha investito circa 2 milioni di euro; la centrale brucerebbe legna del luogo, producendo acqua calda destinata al riscaldamento di alcuni siti del comune, ma anche e soprattutto energia elettrica da vendere alla rete, incassando quindi gli incentivi. Se non fosse che il Gestore Servizi Energetici (Gse) non ha ancora autorizzato la centrale a produrre energia elettrica, quindi da diversi mesi i macchinari, per questa parte di produzione, sono fermi; in estate, dove manderanno l’energia termica, se non v’è nulla da riscaldare e la centrale è sovradimensionata?
La corsa allo sfruttamento delle centrali a biomassa è partita grazie ad assurdi incentivi sulla produzione elettrica, data da un tipo di macchinario che ha rendimenti disastrosi (al massimo 25%); se non ci fossero gli incentivi, per produrre energia elettrica a nessuno verrebbe in mente di realizzare tali impianti. Un percorso in cui di sostenibile non si riesce a vedere nulla ma che, spacciando per fonte rinnovabile anche il rifiuto molto spesso, mette a serio rischio la salute pubblica.

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