È un dato di fatto ormai acquisito che
da qualche tempo in tutta Italia c'è una corsa alla realizzazione di
centrali a biomassa, incremento dovuto anche alla circostanza che
tali impianti, produttivi di energia termica per il riscaldamento ed
energia elettrica da immettere nella rete pubblica, gode di
particolari incentivi.
A complicare, non poco, le cose è la
vaghezza stessa del concetto di biomassa, dato che nel nostro
ordinamento giuridico non esiste una definizione chiara ed
inequivocabile.
Infatti, per la definizione data
dall’attuale legislazione, la biomassa è la “frazione
biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica
provenienti dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dalle industrie
connesse, comprese pesca e acquacoltura, gli sfalci e potature
provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte
biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”.
Una definizione in cui ci sta di tutto
e molto ha davvero poco a che vedere con il termine “bio”.
Se prendiamo ad esempio la biomassa
legnosa, data da alberi, colture dedicate o residui delle lavorazioni
agricole, questa fonte di combustibile è tutt'altra cosa se
paragonata ad un altro tipo di biomassa, definita tale per decreto
ministeriale, e stiamo parlando del “famigerato” Css
(combustibile solido secondario) che per decreto diventa comparato
alla biomassa. Infatti, tale prodotto derivato dai rifiuti è stato
definito “End Of Waste“, cioè fuori dall’elenco dei rifiuti,
quindi gestibile come una biomassa combustibile!
È notizia di pochi giorni fa, quella
dell'intenzione della Regione siciliana di risolvere la
pluridecennale emergenza rifiuti anche (se non soprattutto) con il
ricorso a impianti (per lo più cementifici e centrali elettriche)
alimentati a Css, con la conseguenza che, se si dovesse dare sviluppo
ulteriore alla combustione di tali “biomasse per decreto”, ci
ritroveremo piccoli inceneritori sparsi sul territorio che
utilizzeranno un combustibile che, per quanto lavorato e trattato,
sarà sempre di origine plastica, con le necessarie conseguenze che
ne deriverebbero (diossine, furani, ecc.).
È pur vero che, allo stato attuale
delle normative vigenti il Css deve essere convogliato in grandi
strutture, però le normative si cambiano facilmente; ne sanno
qualcosa gli operatori del fotovoltaico, che si sono visti cambiare
le regole ben cinque volte (cinque conti energia) in soli due anni e
mezzo.
Ma torniamo alla biomassa legnosa che –
come accenneremo a breve, è sempre di attualità. Chi sostiene la
bontà di questi impianti, lo fa sull'assunto che i macchinari di
ultima generazione permetterebbero di controllare quasi totalmente le
emissioni e di considerare pari a zero il bilancio di CO2 emessa,
rispetto a quella incamerata dal legno che si brucia.
Chi è contro sostengono invece che
ogni processo di combustione implica l’emissione di Cov (composti
organici volatili), di diossine, di metalli pesanti che sono comunque
contenuti nel legno e di particolato ultrasottile (nanopolveri), che
sono la fonte di maggiori pericoli per gli esseri viventi, in quanto
talmente piccoli da legarsi alle molecole, generando forme tumorali.
Tanto per fare un esempio strettamente
legato al territorio in cui viviamo e operiamo, solo un anno fa gli
animi, di cittadini, amministratori e oppositori politici, del
piccolo centro collinare di Furnari (Me) furono infiammati dalla
presentazione, da parte di un gruppo di imprenditori, capitanati
dall'ingegner Ivo Blandina (importante menbro della Confindustria
isolana) di un progetto relativo ad una di queste “piccole”
centrali da un mega.
Progetto successivamente ritirato dallo
stesso proponente, ancor prima delle decisioni finali da parte degli
enti che avrebbero dovuto dare il nulla osta. A cascata seguirono
altri ipotesi di realizzazioni a Novara di Sicilia, Fondachelli
Fantina e Milazzo, risolti poi in un nulla di fatto. Ora ci stanno
riprovando a Torrenova, sempre nel messinese, con proteste annesse.
La domanda che ci si pone a questo
punto è, ma queste centrali portano utilità alla collettività? E
per utilità intendiamo ad esempio, vantaggi ambientali (la
realizzazione di una centrale può far chiudere altre fonti di
emissioni, la cui somma è superiore a quella emessa dalla centrale
stessa? In questo caso si potrebbe dire che la centrale è
sostenibile. Se invece si aggiunge alla situazione esistente,
aggravandola non è ecocompatibile) e vantaggi economici (risparmi
nella bolletta energetica).
Nel Trentino, terra molto più ricca di
risorse legnose rispetto alla Sicilia, ci sono alcuni casi
particolari, che rappresentano un esempio pratico di non corretto
utilizzo delle centrali a biomassa. È il caso del Comune di Cembra,
situato in mezzo a una valle con coltivazione di viti pregiate, dove
l’amministrazione comunale, abbagliata dal facile guadagno promesso
dalla realizzazione di una centrale a biomassa legnosa, ha investito
circa 2 milioni di euro; la centrale brucerebbe legna del luogo,
producendo acqua calda destinata al riscaldamento di alcuni siti del
comune, ma anche e soprattutto energia elettrica da vendere alla
rete, incassando quindi gli incentivi. Se non fosse che il Gestore
Servizi Energetici (Gse) non ha ancora autorizzato la centrale a
produrre energia elettrica, quindi da diversi mesi i macchinari, per
questa parte di produzione, sono fermi; in estate, dove manderanno
l’energia termica, se non v’è nulla da riscaldare e la centrale
è sovradimensionata?
La corsa allo sfruttamento delle
centrali a biomassa è partita grazie ad assurdi incentivi sulla
produzione elettrica, data da un tipo di macchinario che ha
rendimenti disastrosi (al massimo 25%); se non ci fossero gli
incentivi, per produrre energia elettrica a nessuno verrebbe in mente di realizzare tali impianti. Un percorso in cui di sostenibile non
si riesce a vedere nulla ma che, spacciando per fonte rinnovabile
anche il rifiuto molto spesso, mette a serio rischio la salute
pubblica.
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